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Stefano Lanuzza
Recensione a "La casa del custode"
in Edison Square – Librerie Giubbe Rosse Magazine, anno X, n. 80, p. 17

Dagli anni sessanta a oggi, superano la dozzina e rivelano una compatta coerenza formale i libri di poesia di Alberto Cappi, poeta e critico en poète. Indagatore, come critico, degli imperfetti codici della dialettica intorno alle istituzioni letterarie del secondo Novecento, questo poeta vocazionale dedito a specialissimi esperimenti linguistici e psicopercettivi conferma un'irriducibile preferenza per la frequentazione di percorsi del tutto personali e inediti: giungendo, con questo suo poemetto in cinquantatre lasse, a una felice maturità. In quest'opera, quasi la metafora d'una irreversibile crisi delle poetiche tramandate, contro taluni usi intimistico-domestici della lingua Cappi mima l'erranza incessante e potentemente conoscitiva della scrittura 'di ricerca'; e, dopo le querule spettacolarizzazioni caratterizzanti il recente sistema letterario italico, sembra perorare un 'ritorno' al libro inteso come heideggeriana 'Casa dell'Essere' presidiata da un 'custode' che ha la stessa voce, solitaria e tutta 'interiore', del poeta. Con certa avventurosa veemenza lirica, ma senza discontinuità strutturali, egli sembra voler proporre, inoltre, una propria visionaria 'cosmologia': una riscrittura del mondo dove, da prospettive inusitate, il testo si misura con l'uomo e le sue memorie; coi fideismi e le guerre, le trame e le menzogne della storia, l'utopia e il fato mortale, le divinità celesti e infere. Nel libro - domicilio d'un guardiano che scandisce in versi le proprie veglie visitate da una poesia vibrante del proprio stesso nominarsi - vi sono insonni numi che "vanno e vengono": qualcuno di loro dispensa i sogni e un altro rivela nuovi alfabeti, mentre un dio esiliato in altri libri ancora oscuri o intonsi "canta il proprio passo di lontananza". Gli fanno erratica corte un vortice di angeli esiliati, l'irruzione d'un demone ilare e seducente, paesaggi metafisici scalfiti da "candide piogge", svettanti torri di città assediate ("le orde sono sotto il muro"), l'arcigno volo d'"un nibbio con gemme alle pupille", l'apprensiva e umile attesa delle prede, l'alieno rintocco di campane, un rapinoso "canto di sirena", un transito di "ombre disadorne", il passaggio lento delle ere... Il tutto trascorrente nel vivido inchiostro d'una scrittura fattasi, progressivamente, quasi ieratica; nella fuga infinita della penna metamorfosata in "pena e ala che sfiora il canto". Quanto basta per spiegare che al poeta ogni verso, ogni riga "è donata, breve e viva"... Ogni strofa - un ductus denso e incalzante - è visitata dalla parola e parla se stessa; ed "è amara di fiducia", "dura di veleni", compiuta, fulminea, icastica e impressiva: la senti scendere "dall'astuccio del destino" e urtare col verso che "una sillaba [...] addenta, morde, e poi tritura"... Magico specchio dello scriba è la parola poetica che disvela l'Essere e non propone scontate concezioni logico-grammaticali informative o strumenti di controllo della realtà, infime ideologie, filosofie della storia o vacue teorie generali della stessa esistenza. Essa - sembra dirci Cappi - è molto di più: è la grata dimora di chi sa rivendicare l'autonomia creatrice della parola che, modulandosi nella poesia, può dischiudere, essa sola, più nuovi orizzonti di senso.