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Vita

da: Steve 32, Primavera Estate 2007, Edizioni del Laboratorio, p. 29


Alla fine nacqui il cinque maggio millenovecentoquaranta 

Fu una data non senza conseguenze perché iniziò da lì una seccante litania parentale e amicale per cui ad ogni successo o catastrofe si alzavano voci del tipo "5 maggio eh" oppure "Ei fu....". Come se le sorti dipendessero da Napoleone. Il peggior voto del mio non breve curriculum scolastico lo ottenni, manco a dirlo, per un commento all'ode manzoniana. Mi sta bene.

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Mio padre, durante la campagna d’Africa, fu l’unico a salvarsi
di 200 commilitoni. Morale: sono nato superstite. Di lì a poco 
soffiava rabbiosamente la guerra. Andammo da Udine a Vipacco
dove l’attendente del genitore ufficiale di cavalleria cercava di
mettermi in sella a un cavallo bianco. Di calci, se ne prese tanti.
Da me. Tornai con uno splendido bajo a dondolo e alcune stecche
di cioccolata. Merce rara allora. Nella mia casa, naturalmente
di via Manzoni, ad ogni scoppio di bomba entrava una grandinata
di sassi dalla strada. Dietro la porta d’ingresso, appostato, vedevo
lampi e fulmini globulari. La notte, quando suonava la sirena
antiaerea, ci si gettava nei fossi al riparo del fischio delle schegge.
Qualcosa di tanto si è tracciato poi nel verso.

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Sfollammo in un paese vicino, da Revere a Bonizzo. Durante il viaggio dalla bicicletta di papà si staccò il seggiolino su cui ero seduto. C’era un bombardamento in corso e nessuno se ne accorse. Rimasi sull’asfalto in attesa dei confetti dal cielo. Era la fine del mondo e io guardavo ammutolito. Niente mi scalfì: ero davvero un superstite. Da Bonizzo vedevo, ogni tanto, gli aerei in picchiata e le loro mortali evoluzioni di libellula. Dieci anni più tardi ho fatto raccolta dei vari modelli di velivolo con i premi delle etichette del Formaggino Mio. Come Dio sa anche l’evento bellico trascinò le sue scarpe altrove lasciandomi in eredità una magnifica elica di bomba (che mi fu presto rubata) e un silenziatore senza fucile. A cinque anni sapevo leggere e scrivere con lettere che parevano zampe di gallina. Prima privata e via in una seconda elementare di 40 elementi: io, il più giovane; il più vecchio aveva 16 anni. Stringemmo tutti un’amicizia forte, da dopoapocalisse. Poi molti se ne andarono, per malattia o persi nelle acque del Po. Una poesia ne parla. Leggevo voracemente e a nove anni avevo quasi bruciato l’intero Salgari e il Verne disponibile.

L'interminabile sigaretta, 1967

Poi passai all’astronomia e successivamente alla fantascienza. Sono state davvero tappe verso la fuga nell’avventura. A dirla tutta un po’ selvaggio lo ero. Sempre in strada o nei campi, con spade di legno, parang o kampillang e le barche a riva un praho. A volte mi scordavo di tornare, la sera. Venivano a cercarmi. Ma già avevo rubato e mangiato la frutta. Prima media, primi film. I pellerossa camminavano con me lungo gli argini e il ponte. Non avevo ancora visto una città tranne Legnago. Quando mi portarono a Mantova mi colse una straordinaria meraviglia. Mi sembrava troppa. L'emozione mi causò la febbre. A Mantova ero andato ad acquistare un flobert che sparava diablos, diablitos e piumini. Non avevo voglia di far cadere le rondini così prendevo di mira le scarpe dei passanti. Tanto erano già a terra. Diventai cosi bravo che la carabina un bel dì scomparve. Magia? Iniziai a pescare con Gabriele, che negli anni raggiunsi in Ecuador, incorporando tutto il verde e l’acqua e i colori della Bassa. Prima Superiore, fine della natura e cominciamento delle scorrerie urbane. Presto incontrai Kierkegaard, troppo presto Nietzsche e Sartre, assieme a De Sanctis, Fubini, Bonora, Benedetto Croce. Un pout pourri.

Con Silvano Martini e Flavio Ermini


Tenevo un quaderno di pensieri in cui cercavo un po’ di poesia. L’amicizia condiva il tempo. Nel 1958 un mio tema sul Pascoli vinse un concorso ministeriale: 40 giorni in Francia. Il paradiso: provatevi voi a passare di colpo dall’agricolo mantovano di stoppie e vecchi trattori alla pienezza di Parigi e dintorni. Diventai l’eroe di un film personale, ma anziché cantare Bécaud, canterellavo Elvis. Non scrissi appunti; sigillavo nella memoria e leggevo in lingua Baudelaire e Aragon. Tornai malvolentieri con una domanda: prima il militare poi l’università? Scelsi al contrario. In quel tempo mi spedirono ad insegnare sui colli morenici, a Cavriana. Scrissi la mia prima poesia. Figurarsi, raccontava di un gabbiano. A due passi i colli erano bucherellati per gli impianti radar e i rifugi antiatomici degli americani che il sabato scendevano in paese. Quel giorno le ragazze si lavavano le gambe. Beh, il gabbiano, indignato, prese il volo con il foglio.

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Mi divertivo: dolci compagnie e buon vino bianco. Leggevo quanto di letteratura slava capitava sotto mano. Un microsalto in Spagna... Ne parleremo in altra occasione. Cominciai a praticare il casigliano che portai in facoltativo agli esami bolognesi. C’era Ezio Raimondi. Impressionante il suo corso sul Manierismo. Abbandonato il Cid Campeador per il momento, studiavo con piacere Wellek Warren, Curtius, Auerbach, Hocke, Spitzer e mi avviavo ad ondulare come un equilibrista tra linguistica ed ermeneutica. Vinsi distrattamente un altro concorso e mi pubblicarono la prima plaquette poetica, passo passo. Ahimè, più Lorca che Cappi! Intanto, a Mantova, fiorivano e litigavano tre riviste, Bancarella di Giovanni Piubello, mensile d’informazione libraria, Il Portico di Umberto Artioli, Gino Baratta, Francesco Bartoli, album di novità esegetiche, Cartabianca di Angelo Cami, spazio di creatività. Partecipai con piccoli saggi e qualche lirica. Avevo iniziato a collaborare alla pagina libri della Gazzetta. È stato un periodo vivace, interrotto dalla chiamata alle armi. Ancora Bologna, istruttore degli assaltatori. Un poeta tranquillo come me alle prese con il corpo a corpo, la difesa personale, congelamenti, NBC, bombe a mano, baionetta, Garand, anfibi eccetera. Però ero bravo. Sì, ma come scrivere poesie? Infatti! Smessa la tuta mimetica acquistai una Olivetti, mi abbonai a un paio di riviste e pigiai sui tasti. D’improvviso fui abitato dalla follia amorosa per Raffaella. Aveva ed ha il dono, oggi è mia moglie, di aprire le situazioni, liberarle, portarle a realizzazione.

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Nei primi anni 70, la strada era quella di Scheiwiller, uscì per il Laboratorio Delle Arti un mio Alfabeto, scrittura sperimentale che toccò nell’80 il feltrinelliano Viaggio al termine della parola e nell’84 le Per Versioni di Spirali. Avevo nel frattempo fondato la collana Simboli Oltre e il primo poeta ad apparirvi fu l’attuale direttore di Anterem, Flavio Ermini. È stato nel 75 che con Raffaella si organizzò, pochi mezzi e molto coraggio, uno dei primi convegni nazionali di poesia, “Gli ultimi linguaggi” al teatro Bibbiena in Mantova. Due giorni di fitte relazioni e letture, operate, tra altri, da Vassalli, Lolini, Lanuzza, Brandolini d’Adda, Ferri, Finzi... Rischiavo, per gli impegni, di credermi Alfieri e potenziavo il lavoro presso gran parte delle riviste. Negli anni 80 ne incontrai una, milanese, che era un turbine d’eventi. Attraverso quell’esperienza conobbi Borges, Jonesco, Arrabal, Sollers, Oury e partecipavo attivamente alle loro tavole rotonde. Questa volta non ero io ad andare, ma Parigi a venire da me. Un po’ come la storia di Maometto. Soprattutto ho conosciuto Juan Liscano di cui ho tradotto numerosi libri. Un universo di convegni e interventi ruotava fino all’esplosione finale. Che fu un bel botto. Succede.

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Verso gli anni 90 il mio modo di poetare ebbe una svolta. Virò, come si diceva allora, verso il significato e il senso. Continuavo a leggere molte poesie in varie lingue, ed approfondire lo studio degli autori. Più avanti capitò l’occasione di fondare, assieme ad Alessandro Gennari, il mensile La Corte di Mantova. Era un periodico lussuoso, ricco di illustrazioni, ben fatto. Intorno alla rivista si organizzava un ambito convegno nazionale all’isola di Albarella e se ne pubblicavano gli atti. Ricordo tra gli invitati (alcuni bisognava strapparli letteralmente al sole e alla tavola!) Bigongiari, Carifi, Conte, Cucchi, De Angelis, De Signoribus, Loi, Majorino, Piersanti, altri. Piacevoli giorni e interessanti cui portavo le due mie figlie, Marianna e Valentina. Lo sponsor si stancò. AI termine del ciclo per così dire insulare iniziai una serie di viaggi. In uno di questi, risalendo dalla punta sud dell’India, stanco, arrabbiato, impolverato, a New Delhi ho avuto un’apparizione: dinanzi a me, al Forte Rosso, elegante, riposato, sorridente, è comparso Carlo Alberto Sitta. Mah, non si sa mai come se la giocano gli Dei!

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Verso gli anni 2000 a Mantova fioriva maggior amore per la cultura. L’assessore addetto, Eristeo Banali, apriva spazi a teatro e poesia. Costruii, con il frizzante Eugenio Miccini, la collana “Archivi di poesia del 900”: lui si occupava del visuale e simili stregonerie, io del verbale. Lì ho pubblicato alcune importanti antologie tra cui l’ultima poesia sudamericana e il primo tomo dell’europea. Da allora ogni agosto si porta la poesia in piazza e le letture vengono accompagnate dalle ricerche musicali del Gruppo Monte Analogo. II pubblico, dai e ridai, si è affezionato. I poeti? Beh, da De Angelis a Tiziano Rossi, dai greci letti da Crocetti e Rentocchini, dai direttori delle varie riviste a Peter Russel. Un’iniziativa nata ancor prima del Festivaletteratura. Durante l’anno, per vincere la pigrizia, si chiamano al Centro Baratta altri autori di versi, da Mussapi a Valesio, da Giorgio Celli ad Alberto Bertoni. In quel tempo (l’incipit è evangelico) uscivano a ruota alcuni miei testi quali II sereno untore, Visitazioni, La casa del custode.

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Con Raffaella partimmo da Parigi e giungemmo a Buenos Aires. Di lì in Uruguay, a Colonia, e via, salendo nei deli, a Quito, a Manta, a Montecristi Manabi, in Ecuador dove fummo trascinati tra selve e spiagge dall’amico ritrovato Gabriele Setti. In seguito, a New York a bere birra ghiacciata con Alessandro Carrera. Un movimentato mese. Dio volle che si tornasse. Subito ho cercato di potenziare una collana faentina nei Quaderni del Circolo degli Artisti. Lamberto Fabbri, che l’aveva voluta, ne andava giustamente orgoglioso. Si abbinavano in libro poeti, pittori, scultori. Personalmente ho avuto la fortuna di originare Piccoli Dei con Giuliano Della Casa, Quattro Canti con Giosetta Fioroni e Cesare Viviani, La bontà animale con Pietro Lenzini. Pubblicammo Conte e Floreani, Ernesto Cardenal e Pablo Echaurren, il cubano Carlos Franqui e Giorgio Ulivi.

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In questi giorni ha fatto capolino la prima antologia della poesia paraguaiana, o paraguagia come vorrebbe Brera, che appare in Italia a cura del poeta sardo Franco Fresi. Da poco la Provincia di Mantova, bontà sua, mi ha dedicato Le copie della luna, che raccoglie una scelta poetica dalle prime alle ultime mie composizioni. Oggi ho intrapreso altre battaglie, di diverso genere. Il tempo e l’occhio alla poesia però, lo pensavo a Bogliasco quando la Fondazione ligure mi invitò un mese a scrivere Arnia, non mancheranno mai. In fondo, che ho da fare? Sono un poeta tranquillo.